DALLA GUINEA BISSAU, P. GIUSEPPE FUMAGALLI
In missione con grinta e entusiasmo
Una vita per la Guinea: così potremmo definire l’esperienza missionaria
di padre Giuseppe
Fumagalli, presente nello Stato africano dal 1968.
Con la grinta e l’entusiasmo di sempre.
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A cura di Isabella Mastroleo
("Missionari del Pime", Febbraio 2007)
Padre Giuseppe, che tipo di realtà ha trovato al suo arrivo in missione e quali cambiamenti ha vissuto in questi anni?
Sono sbarcato a Suzana, nella zona nordoccidentale della Guinea-Bissau, il 6 settembre 1968. La missione che ho trovato era piuttosto isolata per via della guerra ed era inserita in un ambiente unico, perché totalmente costituito da djola-felupe. Un’etnia compatta, con tradizioni ben chiare, di cui bisognava imparare l’idioma, perché quasi nessuno di loro parlava il criolo, la lingua nazionale. Era una missione ben impostata grazie alla presenza di padre Spartaco Marmugi e di padre Luigi Andrioletti. Padre Marmugi era già lì da tredici anni e aveva imparato la lingua dei djola-felupe. Era una persona con una fede granitica e una genialità versatilissima.
L’incontro con padre Spartaco Marmugi è stato quindi importante per lei?
È stato fondamentale. È stato lui il mio primo maestro di lingua felupe. Al
momento del mio arrivo c’era solo una comunità, il lavoro era ridotto a un
villaggio, dove non c’era ancora nessun battezzato. Padre Spartaco, infatti,
aveva scelto di aspettare che i giovani che lo seguivano crescessero e
acquisissero una propria autonomia, andando a vivere in una casa propria, magari
con una moglie che ne condividesse le scelte. Solo in questo modo si poteva
riuscire a fondare una comunità stabile, che avesse delle radici. Ed è proprio
ciò che è avvenuto.
Quando sono arrivato, ho cominciato a seguire passo passo padre Marmugi e a
tempestarlo di domande. E lui, da buon toscano, rispondeva sempre. La lunga
preparazione cristiana voluta da padre Spartaco aveva creato una certa
aggregazione che non si poteva ancora definire comunità: era un gruppo compatto
che poteva resistere alle pressioni del villaggio. Queste persone, che avevano
iniziato a vivere in modo diverso, erano state infatti rifiutate dal villaggio e
costrette a costruire le proprie case all’esterno, creando così un vero e
proprio rione cristiano.
Al mio arrivo, la missione stava preparandosi ai primi battesimi. Decisi così
di mettere a disposizione la mia preparazione in campo musicale. In chiesa si
cantava solo in portoghese e in latino: perché non cantare anche in una lingua
della Guinea? Dopo aver studiato le musiche e le danze tradizionali, sempre con
l’aiuto di padre Spartaco che scriveva i testi, preparai alcuni canti in
felupe. E i fedeli impararono in un attimo, perché si muovevano secondo le loro
abitudini, la loro cultura. È stato uno dei primi successi, la gente ha
guardato con simpatia a questa esperienza e anche al sottoscritto, che faticava
per imparare la lingua. Non sapendo parlare, mi ero messo a cantare!
Ho vissuto con padre Marmugi per cinque anni e, dopo la sua morte, nel 1973, è
stato come un seme piantato nel terreno: si sono aperti altri villaggi. Un segno
stupendo.
E oggi?
Ho cercato di sviluppare le intuizioni e le linee fissate da padre Marmugi. Sono cambiate ovviamente tante cose, ma solo perché c’è stata un’evoluzione. La continuità rimane. Ho cercato di far sì che non ci fossero salti troppo bruschi in avanti, né deviazioni. Ci siamo arricchiti dell’esperienza stessa della Chiesa. Per cui oggi abbiamo cinque o sei comunità con battezzati, alcune vivaci, altre che stanno soffrendo per l’esodo dei figli che vanno a studiare in città.
Com’è strutturata la missione del Pime a Suzana?
Siamo in due missionari: con me c’è padre Davide Simionato. Poi ci sono tre
suore di una congregazione sudamericana. La missione è ormai diventata una
realtà imprescindibile per la gente del posto. Nonostante la diffidenza degli
inizi, ora tutti si stanno accorgendo che sono proprio i cristiani a
salvaguardare il villaggio e la sua cultura. Danno le idee e lavorano in prima
persona per sviluppare la zona, per migliorare la vita dei villaggi e si
prendono cura degli anziani e di chi è in difficoltà.
Nella nostra missione, inoltre, c’è molta collaborazione da parte dei laici.
Una volta ero solo io a prendere le decisioni, ma mi accorgevo che spesso la
gente le seguiva malvolentieri, perché le sentiva come un’imposizione
esterna. Così abbiamo creato l’istituto dei «padrini», sia per gli adulti
che per i bambini cristiani, e lo facciamo funzionare. Il padrino ha un suo
compito specifico a cui il prete non si sostituisce. Ad esempio, se c’è una
coppia in difficoltà e io vengo a saperlo, sono comunque l’ultimo a
intervenire. Se la coppia fa parte della comunità e ha un padrino, è quest’ultimo
che viene avvisato e si impegna per aiutarli.
Quella del padrino è una figura di riferimento che esiste tradizionalmente
nella cultura felupe, tanto che ancora adesso i matrimoni non vengono combinati
dai genitori, ma attraverso i padrini. Noi cristiani abbiamo recuperato questa
istituzione e l’abbiamo fatta rivivere nella comunità felupe cristiana.