Mariagrazia Zambon
PASSIONE
Viaggio fra i missionari del Pime in Bangladesh
PER UN POPOLO
EMI - 2005
4. Ricostruzione umana e spirituale |
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4. RICOSTRUZIONE UMANA E SPIRITUALE
Arriviamo alla cattedrale di Dinajpur attraversando la città in risciò.
Una gincana tra una miriade di risciò coloratissimi e biciclette, e lo
sfrecciare strombettando di qualche moto, auto super-Iussuosa e camion carichi
all'inverosimile.
I bordi delle strade - veri e propri palcoscenici di vita sono tappezzati di
gente che si contende negozietti di latta e plastica. Bugigattoli fatti di nulla
e che vendono quasi nulla, ma dove è esposto di tutto. Anche gli alberi sono
una buona occasione per appendere in bella mostra camicie e pantaloni in vendita
per quattro soldi. Il tutto è molto calmo e dignitoso, pur nella povertà e nel
sudiciume. Bellissimi i colori dei sari delle donne, accovacciate a sminuzzare
montagne di mattoni per farne ghiaia da usare come calcestruzzo. Le lunghe canne
di bambù in vendita ovunque, i ragazzini che giocano spensierati. Tra questa
gente piccola, minuta, magra e scura di pelle, in continuo via vai, mucche pelle
e ossa che brucano tra !'immondizia e galline spelacchiate che razzolano in ogni
angolo.
Appena varcato il cancello del grande complesso dell' episcopio, sembra di
entrare in un altro mondo: tutto ordinato, pulito. C'è aria di festa. È la
festa di san Francesco Saverio, patrono dei missionari e santo a cui è stata
dedicata la cattedrale della diocesi. Bambini e ragazzine degli ostelli e delle
scuole stanno facendo le ultime prove di canti e danze. È pronto un vasto
palcoscenico.
Con questo chiacchiericcio nelle orecchie salgo nell'ufficio di p. Adolfo
L'Imperio, parroco della cattedrale, responsabile del lebbrosario di Dhanjuri,
incaricato di vari lavori di amministrazione e costruzioni edili.
Classe 1930, nato a Zara - ma da sempre vissuto a Gaeta, dove è stato ordinato
sacerdote nel 1967 - è partito per la prima volta per il Bangladesh nel 1969.
Gli acciacchi cominciano a farsi sentire, traditi da un bastone che lo
accompagna senza tregua ovunque, ma è ancora giovanile. Occhietti furbi,
sorriso malizioso, sempre la battuta pronta nel suo accento laziale ancora ben
marcato nonostante i suoi trent'anni in terra bengalese.
Nel suo ufficio pieno di carte, libri, tavoli e scaffali è alle prese con il
computer che sul più bello - sarà il sovraccarico di corrente elettrica usata
dagli altoparlanti in cortile, sarà l'ennesimo cortocircuito della città - si
spegne e non ne vuole più sapere di riaccendersi.
«Eh sì, è solo da sette anni che anche la computerizzazione è giunta in
Bangladesh, sovvenzionata dalla Banca Mondiale: è una gran comodità... quando
funziona! Ce n'è stata di evoluzione anche in questa nazione e di strada se
n'è fatta in questi anni. Il progresso sta arrivando anche qui, ma da sempre il
problema più grosso è la gestione del capitale e delle persone», mi dice
subito p. Adolfo, aprendo un lungo e complesso capitolo sull' economia del
Bangladesh.
Da subito, già nel lontano 1972, dopo la guerra d'indipendenza, egli si è
trovato a dover organizzare l'aiuto alle migliaia di profughi, che, con la
liberazione, si riversavano a frotte in Bangladesh. Esisteva già il CORR (Christian
Organization Relief and Rehabilitation), nato in occasione dell'alluvione del
1971, e a p. L'Imperio ne fu affidato il coordinamento, per convogliare tutti
gli aiuti che provenivano dalle organizzazioni cristiane estere e in particolare
dalla Caritas Internazionale. Dinajpur, a quei tempi era tutta macerie, non si
trova nulla di nulla da comprare, una città fantasma. I soldati e i Bihari,
ritirandosi, avevano distrutto tutto quello che potevano.
I treni non funzionavano, le strade erano inagibili con ponti e strutture
distrutte; per coordinare il lavoro sul territorio della diocesi comprò una
jeep con la quale si spostava personalmente a verificare le varie emergenze.
Finito il regime militare e terminata la guerra IndiaPakistan del 1971, le
circostanze lo hanno immesso senza sosta in un lavoro febbrile, necessario, non
rimandabile: si trattava di folle senza cibo, senza casa, senza strumenti di
lavoro, che arrivavano ai loro villaggi devastati e ad accoglierli non c'era una
società organizzata con i mezzi necessari per venire incontro ai loro bisogni.
In simili circostanze ogni uomo con un minimo di responsabilità doveva fare
tutto il possibile.
Con la guerra e il ritorno di dieci milioni di profughi dall'India, i quattro
vescovi del Bangladesh, che dirigevano l'Organizzazione, stabilirono un
programma di lavoro che ammontava a trenta milioni di dollari.
All'inizio l'aiuto è stato in gran parte di emergenza, il primo degli scopi del
CORR (che poi ha assunto il nome di Caritas); poi, a partire dalla fine del
1972, l'azione si concentrò più sulle opere di sviluppo, stimolando la gente
ad essere sempre più corresponsabile.
«Un esperto delle Nazioni Unite - sottolinea p. L'Imperio - ha riconosciuto che
qui a Dinajpur il CORR è riuscito non solo ad alleviare la fame, ma a salvare
la disastrosa situazione della gente, offrendole la possibilità di collaborare
al proprio sviluppo. L'orientamento era di dare un aiuto perché potessero fare
da soli; se ci fossimo limitati a sfamarli, avremmo dovuto continuare a fare lo
stesso fino ad oggi. Dal 1972 abbiamo rinunciato a distribuire cibo e vestiti a
coloro che ne avevano bisogno, perché il governo si era preso l'impegno di
portare avanti questo lavoro. Noi cercammo di portare avanti il programma di
sviluppo a lunga scadenza, impegnandoci soprattutto a risvegliare una nuova
coscienza sociale.
L'indipendenza ha trovato il paese in una situazione economica bloccata e con
molte distruzioni. Il dopoguerra è sempre il periodo più difficile: è facile
distruggere e ci vuole poco. È difficile cominciare da capo. E ancor più
complicato è studiare come rendere la gente artefice del suo domani».
Sono in tanti a riconoscere che quello del COOR fu un gran bel lavoro.
P. Ferdinando Sozzi dichiarò nell'intervista per «Mondo e Missione»:
«È stato un lavoro meraviglioso, si sono salvate centinaia di migliaia di vite
e aiutati milioni di poveracci a ricostruirsi tutto, dalla capanna al pozzo,
dall'aratura del campo all'acquisto del primo bestiame.
La Chiesa con il COOR ha dimostrato a tutti che la sua preoccupazione era quella
di aiutare tutti allo stesso modo, cristiani e musulmani, bengalesi o santa!,
gente che noi sapevamo fino a ieri si è odiata. Abbiamo avuto dieci milioni di
rifugiati che tornavano dall'India senza nulla, dieci milioni! E molti di quelli
che erano rimasti avevano perso tutto... nella confusione generale, le uniche
cose che hanno funzionato sono stati il COOR e l'esercito indiano. L'esercito
manteneva l'ordine, la Chiesa univa gli uomini di buona volontà per lavorare
alla ricostruzione, amministrava i soldi di tutti per il bene di tutti. Quando
il governo del Bangladesh fu impiantato, il presidente Mujibur Rahman ha voluto
ricevere tutti i vescovi (tutti bengalesi) per ringraziarli a nome di tutto il
Paese.
Era una cosa incredibile vedere come tutti si fidavano solo dei preti e di
quelli che lavoravano per noi: venivano commissioni dell'Onu, dell'India, degli
Stati Uniti, di tutti i Paesi e di tutti gli organismi del mondo; studiavano,
vedevano le necessità e poi davano i soldi a noi perché li facessimo fruttare
per il bene di tutti.
È stato un periodo di emergenza, che è bene che sia passato, perché ormai
tutto è in mano allo stato, com'è giusto. Ma allora si è visto che la Chiesa
era veramente al servizio di tutti: abbiamo costruito strade e case, canali
d'irrigazione e pozzi, abbiamo distribuito viveri e vestiti e medicinali e
nessuno ha potuto dire che abbiamo fatto gli interessi di qualcuno in
particolare. Abbiamo fatto lavorare, nella costruzione delle strade e delle
capanne soprattutto, centinaia di migliaia di disoccupati, pagandoli col riso e
il grano che arrivavano gratis dall'America e da altri paesi. Il Signore ci ha
aiutati visibilmente: sono passati nelle nostre mani e nelle mani della gente
che lavorava con noi dei miliardi, delle decine di miliardi e non abbiamo avuto
un solo caso grave di furto o di qualcuno che sia scappato con i soldi della
comunità.
Credo che l'azione più grande di evangelizzazione l'abbiamo fatta con questa
testimonianza di amore concreto a tutti, di modo che tutti hanno capito cos'è
la Chiesa e cosa sono i missionari.
Durante la guerra non pochi musulmani e i mullah (incaricati di dirigere
la preghiera nell'islam) a vedere che la Chiesa dava tutto, aiutava tutti,
prendeva iniziative continuamente per il cibo, le case, i profughi, i pozzi, i
campi, pensavano e dicevano: questi missionari fanno così per interesse, poi ci
battezzeranno tutti; quando avranno in mano il popolo diranno: chi vuoI essere
aiutato, deve farsi cristiano... E invece in quel periodo non abbiamo battezzato
nessuno, c'eravamo anzi imposti la proibizione di parlare di conversione o di
battesimi. Tutti ci guardavano stupiti, non sapevano spiegarsi tutto questo e di
come non avessimo approfittato dei soldi che avevamo in mano, né del potere,
né del governo: anzi, appena il governo è stato in grado di avere una sua
organizzazione, abbiamo ceduto tutto senza la minima esitazione; e a volte erano
i funzionari governativi che ci pregavano di non mollare tutto perché non
sapevano cosa fare. Questa è stata una grande testimonianza, un'
evangelizzazione che nei piani di Dio avrà prima o poi i suoi frutti. E li ha
già avuti, perché i gio.; vani bengalesi sono maturati nelle avversità e
hanno assorbito la grande lezione di Gesù Cristo, che è di fare del bene agli
altri senza aspettarsi nessuna ricompensa in cambio».
«Per me quel periodo è stata una grande esperienza di vita e di fede - vuole
precisare p. Adolfo - mi sono reso conto di essere passato attraverso un'
esperienza di grande sofferenza, ma anche di aver vissuto un' esperienza di
solidarietà umana e cristiana di cui non è facile delimitare le proporzioni.
Ho incontrato giovani di tante nazioni di Europa, America, Asia che sono venuti
per ricostruire e testimoniare solidarietà con coloro che soffrono. Cristiani e
non cristiani abbiamo lavorato insieme per costruire un avvenire migliore a
fratelli che fino a ieri ci erano sconosciuti.
Un mio amico ebreo che lavorava per l'Onu venne a chiedermi di pregare il sabato
nella nostra cappella del Seminario.
L'assemblea costituente del Bangladesh si concluse con la preghiera fatta in
comune da tutti i parlamentari. Tante volte ho visto i padri recarsi la sera
tardi con il lume a petrolio in cappella dopo una giornata senza respiro. Per la
fine del Ramadan, tanti fratelli musulmani si prostrarono in preghiera insieme,
all'unisono. Allora capii che non eravamo soli e che il domani sarebbe stato
migliore dell'oggi. E così spesso mi ritrovavo a pensare: "Può darsi che
le leggi economiche e le statistiche sulla popolazione mettano paura, può darsi
che il mondo occidentale continui a dare aiuti solo se !'indirizzo politico è
di una certa linea: ma è anche vero che troverò la forza di dire quello che ho
da dire, troverò la forza di capire colui che mi chiede aiuto, facendogli
superare l'egoismo perché chieda non per sé ma per il villaggio, troverò la
forza di ricominciare dopo un fallimento, perché vicino a tutti c'è un
Redentore che soffre e un Padre che accoglie.
Se evangelizzare è uguale a "liberare l'uomo", - mi dicevo - qui si
tratta di iniziare dal livello più basso. Il cristianesimo è un messaggio
all'uomo di oggi, a qualsiasi individuo, un messaggio che parte dall'uomo
libero; l'evangelizzazione è un problema molto più vasto che inizia nelle
situazioni più diverse; qui da noi la prima istanza è lo sviluppo.
La conversione è una cosa che parte da Dio: Lui si costruisce il Regno, a noi
spettava - e spetta - solamente dare una testimonianza di vita che indichi la
vita nuova che è in noi».
Terminata l'emergenza, dotato di uno spirito vivace, ricco di capacità
organizzativa, p. Adolfo nel 1980 lasciò la direzione della Caritas nella sua
diocesi per darla in mano ai laici e riprendere più direttamente in mano
l'opera di evangelizzazione. «Era il tempo di lavorare per rendere autonomi i
bengalesi, in modo che fossero essi stessi i costruttori del loro paese».
E p. Adolfo si dedicò maggiormente ai vari altri suoi impegni amministrativi e
pastorali in Cattedrale, alla scuola di 1.200 ragazzi e giovani, al convitto con
70 "giovinastri", alla comunità cristiana a 40 chilometri dalla
città, all'ospedale e al lebbrosario... così, lui stesso afferma, "finii
di perdere i pochi capelli che mi erano rimasti", finché nel 1986 fu
chiamato in Italia, ironia della sorte, per un incarico nell' economato. E
ricominciò il lavoro tra montagne di scartoffie, dopo aver fatto un corso sulle
nuove normative e legislazioni italiane. È lì che imparò ad usare il
computer.
Nel 1994 la nuova partenza, ovvero il rientro in Bangladesh. Tanta gioia, ma con
essa la nuova fatica di ricominciare.
La tentazione di rimanere in patria fu grande, ma la nostalgia per il paese
d'adozione e la spinta missionaria furono più forti.
E nel chiudere la valigia e lasciare l'Italia, una riflessione a quanti gli
dicevano di restare.
«Qualcuno mi ha detto che dovrei spiegare il motivo del mio ritorno in
Bangladesh. Più di uno mi ha detto: perché non resti? C'è tanto da fare anche
qui da noi. Anche l'Italia è terra di missione. Per me è un dovere far
"sentire" la presenza di Dio, far toccare la paternità di un Dio
buono e misericordioso in un mondo lacerato da odio e discordia. Ed è un
diritto per milioni di persone avere conoscenza di Cristo, perché non ci può
essere fede senza conoscenza e non c'è conoscenza se non si parla di Gesù.
Parlare con la vita, muovendosi, stando vicino ad un altro, ad un diverso per
lingua e cultura, nella sua realtà di vita, per poter arrivare a questa
scoperta di Gesù che cambia la vita.
In un paese come il Bangladesh, dove di persone ce ne sono tante, si può avere
la tentazione di voler fare tante cose e non aver tempo necessario per ascoltare
la persona. Allora bisogna saper andare, come Maria che visita ed è pronta a
servire fermandosi e facendosi carico delle incombenze ordinarie di una casa
dove deve nascere un bambino. Se non abbiamo la stessa attenzione e tensione
perdiamo tempo. Devo dirvi che mi è capitato tra i lebbrosi, tra i piccoli dei
villaggi, a scuola come durante l'alluvione o i periodi difficili della vita.
Bisogna giocare la vita, tutta la vita! Bisogna essere persone innamorate,
appassionate di Dio e in Dio appassionate dell'uomo, senza mettere confini o
limiti a questa passione, che deve assomigliare a quella di Gesù. Per questo
parto. O meglio: riparto».
Tornato in Bangladesh sperava di nascondersi in un villaggio senza troppe
responsabilità, invece gli hanno chiesto di stare dapprima a Dhaka e poi
nuovamente a Dinajpur.
Nei sette anni di assenza trova un paese molto cambiato: traffico caotico di
macchine e autobus, palazzi con ascensori, televisioni a colori, computer,
ampliamento di industrie e di edilizia.
Ovunque gente che viaggia. Autobus pieni, treni stracarichi, risciò che
intasano il traffico.
Anche p. Adolfo ha questa "malattia", tanto che qualcuno gli dice che
deve essere nato in viaggio o in treno e viene soprannominato "padre
viaggiante". Sempre in movimento.
Scrive in una lettera agli amici: «E la sera, nel momento del rendiconto con il
Signore, lo ringrazio di avermi aiutato anche oggi... a viaggiare. Mi trovo
ancora novellino, perché non ho saputo dare la giusta attenzione a coloro che
hanno viaggiato con me, a quelli che alla stazione hanno cercato di iniziare un
dialogo con me... perché non sono sempre stato accondiscendente alle pestate di
piedi, perché non ho ceduto il posto a sedere a qualcuno più anziano di me.
Accidenti! Penso tra me e me, il Signore vuole proprio degli eroi e io non ne ho
la stoffa. Faccio del mio meglio ma... il troppo stroppia e quasi inizio con uno
sfogo. Poi penso a p. Giuseppe, che ha solo 75 anni, che continua a viaggiare in
bici, con il sole e con la pioggia, visitando i villaggi; penso a suor
Enrichetta, anche lei settantacinquenne, che continua a viaggiare per andare a
trovare le "sue suore" nei vari conventi sparsi in questo paese e mi
sento piccolo, molto molto piccolo.
Spero che tra giovani di belle prospettive ci sia qualcuno che abbocchi
all'amore e, per amore di Dio e del prossimo, venga a vivere questa stupenda
avventura».
Mi fissa negli occhi: «Sai, è tempo di lasciare il testimone, ora io mi sento
un poco "Dadu" - nonno -, soprattutto quando incontro persone
conosciute da piccole e adesso hanno due o tre pargoletti dagli occhioni belli e
scrutatori. Mi godo questi "miei" nipoti e penso: forza, il mondo ora
è nelle vostre mani. Noi abbiamo lottato per rendervelo migliore: ora spetta a
voi».
La corrente elettrica è tornata: la musica sfonda le orecchie.
Basta chiacchiere. Si scende in cortile, bambini abbracciano e salutano. Le
bambine tirate a nuovo nei loro vestitini di pizzo e tulle variopinto si mettono
in bella mostra aspettando i complimenti. Per tutti c'è una battuta e la foto
ricordo.
Comincia la festa.
Diocesi di Dinajpur
La diocesi di Krishnagar, dove i missionari del Pime erano partiti a lavorare
nel 1855, era composta da due parti distinte, una a nord e l'altra a sud del
sacro fiume Gange. La zona sud era maggiormente sviluppata e comprendente le
attuali diocesi di Khulna e Krishnagar (l'ultima ora in India).
La zona a nord comprendeva l'attuale diocesi di Dinajpur, insieme a quelle di
Rajshahi, Jalpajguri e Raiganj (queste ultime due attualmente in India),
separate successivamente.
Aveva una fisionomia tutta sua, in quanto la maggior parte dei cattolici era
costituita da tribali; aveva, oltre alla cappella di Saidpur, una parrocchia
nell'estremo nord, a Malda (1915) una a sud, presso Andharkota (1907), e due al
centro: Dhanjuri (1910) e Beneedwar (1911).
L'idea di formare un 'intera diocesi nella zona a nord del Gange diventava
sempre più attuale nelle menti dei missionari e fu così che iniziarono a
cercare un posto adatto allo scopo, a metà strada tra il Gange e il Bhutan.
Più andava avanti il progetto e più tutto sembrava puntare su Dinajpur, in
quanto Saidpur, pur essendo in posizione centrale, non aveva possibilità di
estensione perché il terreno era di proprietà della ferrovia.
Del resto all'inizio del secolo scorso il cristianesimo non era una novità a
Dinajpur e dintorni. Alla fine del 18° secolo la città aveva un unico
cattolico nella persona di Ignatius Fernandes, un portoghese nativo di Macao,
commerciante di tessuti, che possedeva in città una fabbrica per la produzione
della cera ed alcune proprietà a Sadamohol, circa 17 chilometri a nord di
Dinajpur. Senza lasciare il proprio lavoro, predicava la Buona Novella,
riuscendo ad avere alcune conversioni sia a Dinajpur che a Sadamohol.
Subito dopo la loro conversione un nutrito gruppo di Munda da Begunbari, assieme
ad altri Munda originari di Chota Nagpur, emigrarono e si stabilirono vicino a
Nijpara, a cento chilometri da Beneedwar. La distanza era enorme, per quei
tempi, e i missionari erano costretti a far sosta in vari posti, in occasione
delle loro visite.
Uno di questi posti era Kasba, appena a sud di Dinajpur, dove viveva Kesob Sen,
un battista proveniente da Sadomohol. Egli aveva un carattere così particolare
che in Bengala viene definito "Court Dalal", e cioè un uomo che è
più abile di un avvocato nelle dispute legali ma che è anche più tenace di un
mandriano nel mungere... la propria clientela.
Questo battista era amichevole nei riguardi dei missionari e quando seppe che
essi cercavano del terreno per un Centro Missionario, non perse l'occasione di
offrire un bel pezzo di terra proprio dietro la sua casa che era allora alla
sinistra dell'ingresso principale dell'attuale episcopio di Dinajpur. Il terreno
fu comprato nel 1914 dal fratello francescano Paulus. Kesob si diede da fare
come un matto e regalò anche un pezzo della sua proprietà e, nel suo
entusiasmo, si rifece battezzare cattolico. La sua idea era che, con un
complesso di tal fatta, i suoi affari sarebbero notevolmente incrementati.
Fu solo a conclusione della prima guerra mondiale, nel 1923, che si stabilirono
nel centro due missionari: padre G. Margutti e padre Bianchi, entrambi del Pime.
Fu subito chiaro che non erano proprio i tipi che potessero essere
strumentalizzati da Kesob per i suoi traffici e la reazione di Kesob fu
immediata. Come era stato attivo nell'aiutare la costruzione della missione
così ora, con querele, calunnie ed ogni mezzo tentava di distruggerla. Grazie a
Dio non riuscì nemmeno a scalfirla.
I nuovi missionari all'inizio vivevano in una tenda, poi in un capannone di
lamiera e finalmente iniziarono la costruzione in mattoni. Nel breve periodo di
quattro anni il posto era pronto per ricevere il primo Vescovo della appena
creata diocesi di Dinajpur. Si era nell'anno 1927.
Kesob, il vecchio imbroglione, restò cattolico, malgrado tutti i problemi che
aveva creato. Egli morì in povertà ma visse abbastanza per assistere al
giubileo d'argento della diocesi.
L'espansione della missione avveniva non soltanto in termini di costruzioni, ma
anche di nuovi battesimi. Molte conversioni avvenivano tra i Santal dell'area di
Nijpara, Sadomohol e, specialmente, nella zona sud-ovest di Dinajpur.
La missione è andata man mano espandendosi e conta attualmente circa 900
cattolici. Al suo interno esiste una scuola (sia primaria che superiore) per
1800 studenti, un ospedale con 145 posti letto, il convento delle suore, la
chiesa cattedrale, un convitto per studenti delle scuole superiori con 200 posti
per i ragazzi e 120 per le ragazze, un orfanotrofio, la Casa Vescovile, la Casa
Parrocchiale (appena ultimata nel 2000) che comprende un centro di cucito,
uffici parrocchiali e aule per i bambini della Parrocchia, oltre a un attrezzato
centro di computer.
Il primo vescovo di Dinajpur fu Santino Taveggia, Pime, già vescovo di
Krishnagar per 21 anni. Aveva 72 anni quando andò a Dinajpur e vi morì dopo
appena un anno.
Il secondo vescovo fu Giovanni Battista Anselmo, Pime, un uomo di estremo
coraggio e di incredibile resistenza al lavoro. Fu lui che si accollò con
grande determinazione la "nuova impresa" 0011929 al 1949. Erano anni
in cui la popolazione cattolica cresceva nella diocesi al ritmo di 4-5 mila
unità all'anno, e poi la seconda guerra mondiale, la spartizione dell'India nel
1947, la deportazione nei campi di concentramento di quasi tutti i missionari,
la perdita dei fondi della diocesi, lo stop degli aiuti dall'Italia e la grande
carestia nel Bengala. Il vescovo Anselmo si ritirò nel 1949 e morì a Rohanpur
nel 1953.
Il terzo vescovo fu Giuseppe Obert, Pime, dal 1949 al 1968, anno in cui si
ritirò in Italia, dove morì il 6 marzo 1972.
Il quarto (e primo bengalese) vescovo fu Michael Rozario, dal 1968 al 1978,
quando fu trasferito al seggio metropolitano di Dhaka. Durante i suoi dieci anni
si ebbe l'indipendenza del Bangladesh e l'assassinio dell'unico sacerdote
santal: Lucas Marandi. Ma la Chiesa locale da allora ha ripreso vigore ed è in
continuo aumento. Nel 1975 inaugurò la nuova cattedrale di Dinajpur, costruita
da p. A. L'Imperio.
Il quinto vescovo fu Theoutonius Gomes, CSC dal 1979 al 1996, anno in cui fu
trasferito come vescovo ausiliare di Dhaka. Nel 1991 si è distaccata la nuova
diocesi di Rajshahi.
Il vescovo attuale, dal 1996, è Moses Costa, che sta portando avanti con
notevole coraggio e una incredibile forza l'evangelizzazione nei più remoti
villaggi della diocesi e che sta dando una spinta di innovazione tecnologica
alla stessa.
p. Luigi Pinos