Gianni
Zaccherini
RENDETE
PIENA LA MIA GIOIA
Lettura e
commento della LETTERA AI FILIPPESI
EDITRICE
MISSIONARIA ITALIANA 2004
Premessa
( Francesco Grasselli) Capitolo
1. Sia che io viva, sia che io muoia (Fil 1, 1-30) Capitolo
2. Lo stesso sentire che fu in Cristo Gesù (Fil 2, 1-30) Capitolo
3. Per guadagnare Cristo (Fil 3, 1-21) Capitolo
4. Nel libro della vita (Fil 4, 1-23) |
INDICE
DELLE "FINESTRE" Vi porto nel cuore. I cristiani e la «sfera affettiva» Umiltà, carità, unità. Perché le comunità cristiane non vadano in malora. «Lo stesso sentire» e il pluralismo. Un problema di grande attualità nella Chiesa e nel mondo Motivi di gioia. Mentre l'angoscia invade la vita |
Ringraziamento
e preghiera dell'apostolo (vv. 3-11)
"Ricordo e ringrazio"
Vv. 3-4: “Ringrazio il mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi,
pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera".
Dopo
il saluto e l'augurio abbiamo, nei versetti dal 3 all'11 del capitolo primo, una
prima parte dello scritto di Paolo che possiamo sintetizzare come ringraziamento
e preghiera dell'apostolo per la comunità di Filippi.
Come
in molte altre lettere Paolo, prima di parlare di sé e di dare indicazioni di
principio o pratiche in ordine alla salvezza, formula una preghiera di lode e di
ringraziamento. Preghiera che contiene, come sempre negli scritti di Paolo,
profonde rivelazioni e indicazioni di contenuto teologico ed esistenziale che
vanno colte dai credenti. Cosa dice Paolo? Egli ringrazia Dio: "Ringrazio
il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per
voi in ogni mia preghiera".
Ogni
volta che Paolo si ricorda dei cristiani di Filippi rende grazie al suo Dio. E
si ricorda di loro in ogni sua preghiera: cioè, sempre. È un ricordo continuo
quello che Paolo ha, perché continua è la sua preghiera. E la preghiera che
contiene il ricordo dei suoi cristiani si volge poi in rendimento di grazie al
Padre. Paolo dirà subito dopo il perché di questo rendimento di grazie, ma già
in questo avvio ci sono alcune cose da sottolineare.
La
preghiera cristiana, come emerge da questo modello di Paolo, è prima di tutto
una preghiera continua: "Pregando sempre con gioia per voi".
Poi, Paolo prega per i cristiani di Filippi con gioia, portandoli nel
cuore. La preghiera cristiana è un portare con gioia i fratelli nel proprio
cuore ed è un fare continuamente ricordo di loro. Questa impronta è molto
importante, ma non è molto frequente nell'uso odierno della nostra preghiera.
È stata in parte ripristinata nella celebrazione dell'Eucarestia - che è il
rendimento di grazie per eccellenza della comunità cristiana - tramite la
cosiddetta preghiera dei fedeli, ma proprio le sottolineature di Paolo
dovrebbero farci comprendere che la nostra preghiera dovrebbe assumere sempre
meglio e sempre più profondamente nel cuore i fratelli, rendendoli partecipi
della nostra esistenza. Si rafforza, così, e si consuma nella preghiera la
comunione che nasce dal Battesimo e si fonda sulla vita del Cristo in tutti noi.
Il perché del ringraziamento
V. 5: “A motivo della vostra cooperazione alla diffusione del
Vangelo dal primo giorno fino al presente ".
Alla
lettera bisognerebbe tradurre: "A motivo della vostra comunione
all'Evangelo (koynonia umon eis to euangélion) dal primo giorno fino al
presente". Per Vangelo Paolo intende sempre sia il contenuto - che è Gesù
Cristo - sia l'atto dell'annuncio, la proclamazione.
Cosa
significa comunione all'Evangelo? Un elemento è la partecipazione 'dei
Filippesi all'annuncio evangelico, però non è solo questo. Infatti, la
traduzione della CEI è un po' riduttiva, forse per rendere più comprensibile
il concetto. Si pensa che dire "la vostra comunione al Vangelo" non
sia chiaro, mentre tradurre "la vostra cooperazione alla diffusione del
Vangelo" risulti più chiaro. Forse è vero, però indubbiamente il senso
viene ristretto. "Comunione all'Evangelo" è anche questo, ma c'è
indubbiamente dell'altro: quando in una comunità viene proclamato il Vangelo,
il Vangelo accolto crea una comunione di esistenza fra coloro che lo accolgono
e il Vangelo stesso. Solo in secondo luogo la comunità che ha accolto il
Vangelo
e che è entrata in comunione con esso diventa a sua volta proclamatrice del
Vangelo con la vita e con le parole.
Il
ringraziamento di Paolo si fonda essenzialmente sul fatto che i cristiani di
Filippi sono in comunione col Vangelo perché l'hanno accolto nella fede e a
loro volta ne sono diventati i proclamatori e i testimoni, continuando l'opera
di evangelizzazione che ogni cristiano deve attuare. Indubbiamente emerge qui
quel concetto che il Concilio Vaticano Il ha messo in particolare evidenza: che
tutta
Paolo
ha presente questa comunione al Vangelo della Chiesa di Filippi come un evento
che ha caratterizzato tutta la vita della comunità in quanto tale, dal primo
giorno fino al presente. Paolo ha davanti agli occhi questo evento di grazia, di
cui lui è stato protagonista. Ha annunciato il Vangelo ai cristiani di Filippi,
questi lo hanno accolto e sono entrati in comunione con esso da quel momento
fino al giorno in cui Paolo scrive questa lettera. Di questo fatto Paolo rende
grazie al suo Dio.
L'opera
di Dio e il suo compimento
v. 6/a: “E sono persuaso che colui che ha iniziato in voi
quest'opera buona, la porterà a compimento...".
Paolo ha davanti a sé la
comunità di Filippi e, come abbiamo visto, ringrazia il Signore per la
comunione di essa con il Vangelo: è questa che qui viene definita "opera
buona". Quest'opera buona, cioè la vita di fede della comunità cristiana,
è azione di Dio, è grazia. Se i cristiani di Filippi sono così, se sono in
comunione al Vangelo - per cui Paolo può e deve rendere grazie al Signore -,
questo è conseguenza del fatto che si è compiuta in loro ('iniziativa di
Dio. Se sono così, non è perché sono particolarmente buoni, ma perché Dio ha
operato con potenza in loro.
C'è
qui una delle rivelazioni fondamentali del cristianesimo: la vita di grazia, la
vita di fede, la vita di comunione con Dio e col Vangelo è opera di Dio, non
dell'uomo. È dono di Dio, gratuito. Con questa articolazione, che è
evidenziata benissimo da Paolo: "Colui che ha iniziato in voi quest'opera
buona, la porterà a compimento". Dio agisce nel credente e nella comunità
non una volta sola, all'inizio, ma continua ad agire fino a portare a
compimento, a maturazione, a perfezione l'opera che ha iniziato nel momento in
cui è stato annunciato e accolto il Vangelo.
C'è
una sottolineatura, da cogliere: nell'esistenza fedele dei cristiani si verifica
una crescita, un perfezionamento che si deve attuare lungo tutto l'arco
dell'esistenza. L'esistenza del credente non è un rimanere sempre allo stesso
livello, ma è un crescere nella comunione con Dio. Dobbiamo raggiungere la
dimensione consumata e perfetta dell'esistenza di fede, ma questo è possibile e
si attua nel credente solo per opera e per grazia di Dio.
Il
giorno di Gesù Cristo
V.
6/b: “... fino al giorno di Gesù Cristo".
C'è
un'altra sottolineatura significativa in questo versetto, che spalanca davanti
agli occhi del credente un fatto che è al termine dell'esistenza cristiana:
il giorno di Cristo Signore. L'esistenza della comunità dei credenti ha un
inizio e una fine; l'inizio è il giorno in cui è stato predicato e accolto il
Vangelo, la fine è l'incontro col Signore che viene nell'ultimo giorno, nel Suo
giorno. Questa tensione e questo cammino nell'esistenza di fede definiscono
quella che noi possiamo chiamare la speranza cristiana.
Perché
questo evento definisce la speranza cristiana? Che cos'è la speranza cristiana?
La
speranza cristiana è la certezza del futuro di Dio. La certezza cioè che Dio
inizia e porta irresistibilmente a termine l'opera che ha iniziato. Se Dio si
è impegnato una volta per tutte nel cuore del credente, questo impegno non è a
termine, ma troverà la sua consumazione e perfezione. Dio non torna indietro,
il cristiano lo sa. Il fatto che abbia accolto il Vangelo dice che in lui opera
potentemente il Signore e opererà fino al Suo ritorno, fino al giorno
dell'incontro definitivo con Lui.
Questa
è la speranza cristiana: il sapere che la presenza e l'opera di Dio in noi,
iniziate con l'accoglimento del Vangelo, ci aprono al futuro di Dio, al futuro
che è Dio stesso in noi.
Il
giorno che ci aspetta, il giorno di Gesù Cristo, è quello che nell'Antico
Testamento veniva chiamato il giorno di Jahvè, con la nuova connotazione, il
nuovo arricchimento che a questo evento porta il Nuovo Testamento.
Sappiamo
che il giorno di Jahvè è uno dei temi centrali della rivelazione biblica. La
storia della salvezza si concluderà in un giorno che è appunto il giorno di
Dio. In quel giorno Dio porterà a compimento la storia del mondo e introdurrà
nella salvezza coloro che ad essa sono destinati. Sarà quello il giorno in cui
finiranno il peccato e la morte e inizierà la vita di eterna comunione con Dio.
Secondo
la prospettiva veterotestamentaria questo giorno di Jahvè si compie con
l'avvento del Messia. L'inviato di Dio porta a conclusione la storia della
salvezza e pone fine al peccato e alla morte; con essi pone anche fine alla
storia del mondo per iniziare il nuovo tempo, il nuovo giorno, la nuova era, che
è l'era della Salvezza.
Questo
giorno di Jahvè, che si compie con il Messia, trova però un'illustrazione
ulteriore nel Nuovo Testamento. Noi sappiamo che con la venuta di Gesù Cristo,
che è il Messia di Dio, non è venuto a compimento il mondo, non è finita la
storia del mondo. La storia continua e noi parliamo, nella logica del Nuovo
Testamento, di una prima venuta e di una seconda venuta del
Messia. Sotto certi aspetti sarà questa seconda venuta del Messia che si carica
della pienezza di significato del giorno di Jahvè del Vecchio Testamento;
quindi il giorno di Jahvè del Vecchio Testamento si sdoppia, potremmo dire, in
due giorni: la prima e la seconda venuta del Cristo.
Questo
tempo intermedio, che va dalla prima alla seconda venuta del Cristo, è il
nostro tempo, il tempo della Chiesa, il tempo della proclamazione evangelica, il
tempo della comunione all'Evangelo, come dice qui Paolo. Questo tempo intermedio
poi, in realtà, è tutto l'ultimo giorno di Jahvè, che troverà nella
manifestazione escatologica il suo compimento. Noi quindi stiamo già vivendo
il giorno finale, viviamo già il tempo della salvezza, come dice Paolo in 2
Cor 6,1-2.
Questo
giorno della salvezza, che il Nuovo Testamento definisce appunto come il giorno
di Cristo Gesù, non è un qualcosa di inatteso, che capita senza che sappiamo
che senso o che valenza abbia, ma è il giorno della consumazione dell'opera già
da Dio iniziata in Gesù Cristo, con la proclamazione del Vangelo e con la sua
Passione, Morte e Resurrezione.
Questo
giorno, quindi, non è un qualcosa di sconosciuto e di sconvolgente per il
credente, ma è l'oggetto della sua speranza. Il credente non aspetta l'ultimo
giorno con paura, terrore o angoscia; lo aspetta nella gioia e nella pace,
sapendo che questo giorno altro non sarà che il perfezionamento dell'opera che
Dio ha già iniziato in noi.
Nel
futuro, davanti a noi, abbiamo soltanto un Dio che salva, abbiamo soltanto la
misericordia, la grazia e la pace che Dio ci ha elargito in Gesù Cristo
Signore.
Pensare-sentire come Gesù
V.
7/a: "È giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi".
È
giusto che Paolo pensi che nei cristiani di Filippi si compie l'opera salvifica
del Padre; è giusto che egli veda i cristiani di Filippi come una
comunità credente che cammina verso il compimento dell'opera che Dio ha
iniziato in essa.
Cosa
significa questo "è giusto"? Significa che corrisponde a verità, fa
parte dell'obbedienza al Signore che Paolo deve avere. È molto interessante
questa sottolineatura: non solo è bello, non solo gli piace, ma è giusto che
pensi così.
Perché
è giusto che Paolo pensi così? Perché il compiersi dell'opera di Dio nella
comunità di Filippi non appartiene a lui; egli deve riconoscerlo, deve
prenderne atto e deve renderne grazie al Signore. Se non lo facesse,
Paolo sarebbe infedele. La giustizia intesa nel forte senso biblico vuole che
Paolo riconosca nei cristiani di Filippi la misericordia e la grazia del
Signore. È un riconoscimento che Paolo deve all'opera del Padre.
Sarebbe
interessante anche sottolineare il significato della parola "pensare":
è giusto che io pensi a voi. Questo "pensare", nel senso
originario della parola greca, contiene anche il sentire. Non è soltanto un
pensare a livello intellettuale, ma un pensare anche a livello di affettività,
di sentimento. Paolo sente-pensa. Questo sentire-pensare indica lo stato d'animo
profondo, è ciò che l'uomo racchiude nelle profondità del proprio essere. Ed
è questo sentire profondo di tutto l'essere di Paolo che corrisponde a
giustizia.
Su
tutto questo però ritorneremo, perché sul termine che rendiamo con
sentire-pensare
Paolo
pensa in questo modo, i cristiani devono pensare anche loro così, sempre nel
senso di una profonda presa di coscienza, che poi non è altro che il modo di
pensare-sentire di Cristo Gesù. I cristiani devono pensare come pensava Gesù,
devono sentire come sentiva Gesù. È il pensare-sentire di Gesù Cristo che
deve attuarsi in tutti i cristiani.
Uscendo
dal testo della Lettera ai Filippesi, questa parola trova un'ulteriore
specificazione quando leggiamo negli Atti che i primi cristiani avevano un
cuore solo e un'anima sola: sono termini diversi, ma vogliono dire la
stessa cosa. Avere un cuore solo e un'anima sola vuoi dire sentire e pensare
nello stesso modo, che è il modo di pensare profondo che fu ed è di Gesù
Cristo.
Un amore generante
V. 7/b: "... perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi
della grazia che mi è stata concessa".
Paolo, dunque, dice "È
giusto che io pensi questo di tutti voi" come conclusione di quello che ha
detto prima, ma con un'ulteriore motivazione: "perché vi porto nel
cuore". Ed egli porta nel cuore i cristiani di Filippi - potremmo dire: fa
tutt'uno con loro -, perché sono partecipi della stessa grazia che è stata a
lui concessa. Il ringraziamento gioioso che Paolo innalza al Padre per
l'adesione dei Filippesi al Vangelo è lo stesso gioioso ringraziamento che
deve a Dio per la propria fede. Nei cristiani non c'è un ringraziamento a Dio
per il proprio dono di salvezza che sia diverso da quello che innalzano per il
dono di salvezza degli altri credenti. Essi si portano a vicenda nel cuore
davanti al Signore, lodandolo per la misericordia che tutti li ha avvolti.
Questa
sottolineatura di Paolo è significativa in questo contesto, perché il
"portarli nel cuore" è visto come causa del ringraziamento che Paolo
rende al Padre e come attuazione della verità, dell'autenticità, della
giustizia del pensare in questo modo i cristiani di Filippi. L'amore di Paolo è
parte attiva della fedeltà dei Filippesi: se Paolo porta nel cuore i Filippesi,
questo portarli dentro di sé è una potenza, è una forza salvifica nei
confronti dei Filippesi. Non siamo di fronte semplicemente a un fatto affettivo,
ma a un atto generatore di quella salvezza di Dio che si è compiuta in Gesù
Cristo. Questo è un concetto importante: l'amore di Paolo verso i cristiani di
Filippi è un amore generante, un amore trasfigurante, un amore che salva.
La
stessa cosa vale per tutti noi: come Paolo amando i fratelli è compartecipe
dell'opera di salvezza che il Cristo compie in essi, così noi, amando i
fratelli, diventiamo compartecipi dell'opera della loro salvezza e della loro
santificazione.
Questo
crea un collegamento d'importanza decisiva nella comunione dei credenti:
l'amore con cui ci amiamo gli uni gli altri altro non è che il compimento
dell'amore del Cristo. È Cristo che ci ha amato per primo e amandoci ci ha
salvati; ma anche noi amandoci gli uni gli altri facciamo sì che questo amore
diventi operante all'interno della comunità e quindi siamo compartecipi
della salvezza gli uni degli altri.
L'affermazione
di
Quindi
l'espressione "vi porto nel cuore" non dice soltanto un affetto
particolare di Paolo nei confronti dei cristiani di Filippi, ma è qualcosa di
più profondo, qualcosa di decisivo per la salvezza dei Filippesi.
Il
fatto poi che Paolo porti nel cuore i Filippesi e che questo sia per loro fonte
di salvezza, si concretizza nel fatto che Paolo annuncia loro il Vangelo. Per
Paolo amore per i cristiani di Filippi e annuncio evangelico vengono a
coincidere.
Ne viene un'altra conseguenza
importantissima per i nostri rapporti vicendevoli: se ci amiamo davvero gli uni
gli altri, se ci portiamo gli uni gli altri nel cuore, dobbiamo annunciarci a
vicenda il Vangelo.
Potremmo
continuare, perché questo concetto è come una strada che si dirama in mille
sentieri: per esempio, quando ci correggiamo con la correzione fraterna
autentica, che è un confronto di tutti con il Vangelo, consumiamo nella forma
più alta il nostro amore fraterno. Non posso correggere un fratello, se non
lo amo; ma lo amo solamente se lo correggo, annunciandogli il Vangelo per la
sua concreta situazione. Non c'è opera di carità che contemporaneamente non
sia annuncio evangelico e non c'è annuncio evangelico che non sia allo stesso
tempo opera di carità.
Perché
Paolo li porta nel cuore? Perché vede compiersi in loro l'opera salvifica del
Padre con la loro partecipazione alla grazia del Vangelo. I cristiani
di Filippi, che hanno accolto il vangelo di Paolo, sono compartecipi della
grazia affidata a Paolo, che è quella di annunciare il Vangelo.
Le catene
e la lotta
v. 7Ic: “... sia nelle catene, sia nella difesa e nel
consolidamento del Vangelo".
L'essere
partecipi della grazia concessa a Paolo trova in questi versetti un'ulteriore
specificazione: la compartecipazione alla grazia concessa a Paolo si ha per i
Filippesi nei due momenti in cui in Paolo trova una piena verifica di questa
grazia: primo, le catene; secondo, la difesa e il consolidamento del Vangelo.
Facciamo
riferimento ad Atti 26, quando Paolo riferisce al re Agrippa l'evento centrale
della sua esistenza:
"In
tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione
e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso
mezzogiorno vidi sulla strada, o
re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i
miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii dal
cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?
Duro è per te recalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi
sei, o Signore? E il Signore rispose: lo sono Gesù, che tu perseguiti.
Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti
ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle
per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai
pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre
alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la
remissione dei peccati e l'eredità in mezzo a coloro che sono
stati santificati per la fede in me" (At 26,12-18).
Nello
stesso momento in cui Paolo incontra il Signore risorto viene inviato come missionario a
proclamare il
Vangelo. Questa è la grazia che Paolo ha ricevuto; e viene legata, in modo
particolare nel cap. 22 degli Atti, a un contenuto di continua sofferenza. Per
Paolo, cioè, l'annunciare il Vangelo ai pagani fa tutt'uno con la sua croce. La
partecipazione alla grazia di Paolo, che è fondamentalmente la grazia di
annunciare il Vangelo, è quindi anche una partecipazione alle sue catene.
Coloro
che sono partecipi della grazia concessa a Paolo verificano proprio nel loro
patire l'autenticità della loro esistenza di fede. Si realizza così la
parola che il Signore stesso aveva pronunciato: "Hanno perseguitato me,
perseguiteranno anche voi" (cf. Gv 15,18-20 e 16,1-2). Il cristiano rivela
la sua autenticità di discepolo nel momento in cui entra in comunione con le
sofferenze del Cristo. Questo, Paolo lo ha ben chiaro e dicendo ripetutamente
che lui ha patito più degli altri rivendica l'autenticità della sua
proclamazione evangelica.
Paolo
esprimerà lo stesso concetto nei vv. 27-28 di questo stesso capitolo:
"Soltanto però comportatevi da cittadini degni del Vangelo, perché nel
caso che io venga e vi veda o che di lontano senta parlare di voi, sappia che
state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del Vangelo,
senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari". C'è, quindi, una
persecuzione che non può non verificarsi per i cristiani di Filippi.
Ma
qui Paolo allude anche, chiaramente, a quello che sarà affrontato con più
ampiezza nel capitolo terzo, cioè al problema delle eresie. La fede cristiana
rischia sempre di essere rimessa in discussione, di essere contraffatta, di
essere annacquata. I cristiani autentici invece restano in difesa della vera
fede, operano e combattono per il consolidamento della sua autenticità. Paolo
al cap. 3, v. 2, dirà: "Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi
operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere!". Allude ai
cristiani che all'interno della comunità predicano un vangelo non conforme al
suo, non conforme al Vangelo di Dio.
Sarà,
questo, un tema centrale nella Lettera ai Galati, quando Paolo si meraviglia del
fatto che i cristiani della Galazia abbiano abbandonato il Vangelo. Dice al
cap. 1, v. 6: "Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha
chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro Vangelo. In realtà, però,
non ce n'è un altro; solo
che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo.
Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un Vangelo
diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema!".
La
partecipazione alla grazia di Paolo si ha, quindi, nella partecipazione alle
sue sofferenze, ma anche nella partecipazione alla difesa e al consolidamento
del Vangelo.
Ovviamente,
quello che è detto
per i cristiani di Filippi vale per i cristiani di tutti i tempi. Ogni comunità
cristiana è partecipe della grazia di Paolo, se è partecipe delle sue catene e
della difesa-consolidamento del Vangelo.
Da
una parte, questo è un fatto drammatico, perché ci prospetta un fatto
ineliminabile: il continuo combattimento! Non ci sarà mai nella comunità dei
credenti un momento in cui si possa tirare il fiato; c'è sempre un'opera di
consolidamento e di difesa del Vangelo che va portata avanti e condotta alle
estreme conseguenze.
D'altra parte è anche un fatto
consolante, perché quel che si patisce in questo combattimento per il Vangelo
ci garantisce che siamo in comunione col Cristo. E con Paolo.
"Il
profondo affetto che ho per voi"
V.8: “Infatti Dio mi è testimonio
del profondo affetto che ho per tutti voi nell'amore di Cristo Gesù".
È
una ripresa del versetto precedente ("Vi porto nel cuore"), ma qui Paolo chiama
Dio a testimone della sua affermazione. L'amore di Paolo non è una parola, ma
è un fatto che può essere testimoniato da Dio. È come se Paolo in questo
momento facesse un solenne giuramento e lo pronunciasse non davanti a un uomo,
ma davanti a Dio.
Dio
che, come sappiamo dall'Antico Testamento, non guarda le apparenze ma l'intimo
del cuore umano, sa e può testimoniare che l'attestazione di amore di Paolo
verso i cristiani di Filippi non è menzogna e inganno, ma una realtà profonda
di tutto il suo essere.
Paolo è ricolmo di amore per i
cristiani di Filippi, perché egli a sua volta è nell'amore di Cristo:
"... del profondo affetto che ho per tutti voi nell'amore di Cristo Gesù".
Paolo è radicato nell'amore di Gesù, fonte e causa di ogni amore.
L'espressione che qui viene tradotta "nell'amore di Cristo Gesù",
alla lettera dovrebbe essere tradotta: "nelle viscere di Cristo Gesù".
Si tratta, cioè, di un amore che prende tutto l'essere, potremmo dire di un
amore viscerale. Molte volte usiamo questa espressione in senso dispregiativo,
per dire un amore non lucido, istintivo, di... seconda categoria. Paolo,
invece, la usa per indicare l'amore di Cristo. Ora, l'amore che Gesù nutre per
noi è un amore viscerale, ma nel senso che è totale, amore di tutto il suo
essere! È l'amore di Cristo che piange sulla morte di Lazzaro. Amore
appassionato, quello del Signore! Così è anche l'amore di Paolo: un amore
appassionato come quello di Gesù. Chi è in Cristo, dice Paolo, ama in Cristo e
il suo amore è vero, autentico. Del suo amore può rendere testimonianza Dio
Padre.
"Ama e fa' ciò
che vuoi"
V. 9: “E
perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e
in ogni genere di discernimento... ".
A questo punto Paolo si
riallaccia a quello che aveva detto ai vv. 3-4: "pregando sempre con gioia
per voi in ogni mia preghiera". Qual è l'oggetto di questa preghiera? Per
che cosa prega Paolo? Il testo dei vv. 9, 10 e 11 ci presenta il contenuto della
preghiera di Paolo, con tre successivi livelli. Sono tre le cose per cui Paolo
prega. La prima è "che la vostra carità si arricchisca sempre più in
conoscenza e in ogni genere di discernimento", Paolo prega che l'amore
che Dio ha suscitato nei Filippesi cresca, che si dilati sempre più. Questa è
un'ulteriore caratteristica dell'amore cristiano: è una realtà dinamica, una
realtà sempre in sviluppo. Non è qualcosa di dato una volta per tutte, ma
qualcosa che deve continuamente arricchirsi e dilatarsi. Se per ipotesi si
fermasse" verrebbe meno. La necessità di una continua crescita fa parte
della logica dell'amore cristiano.
Oltre
a questo, Paolo prega perché questo amore, che deve dilatarsi continuamente,
"si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di
discernimento". Le due parole "conoscenza" e
"discernimento" stanno a indicare due aspetti della conoscenza umana.
La prima individua la conoscenza intellettuale, potremmo dire la penetrazione
della verità in se stessa: ciò che Dio ci rivela, comunica, trasmette. La
seconda indica piuttosto la conoscenza pratica di ciò che è bene fare e di ciò
che è bene non fare, cioè la conoscenza operativa su quello che è necessario
scegliere, giorno per giorno, per essere conformi a questo amore.
Da
questa affermazione di Paolo si deduce che nel cristianesimo tutto dipende
dall'amore. La conoscenza e il discernimento sono un frutto della carità e
sono l'attuazione esistenziale concreta di questa carità. Viene in mente la
frase classica di s. Agostino che traduceva così questo concetto: "Ama e
fa' ciò che vuoi".
Davvero, se uno è nell'amore di
Dio, tutto ciò che esce dal suo cuore è frutto di questo amore di Dio in lui.
Quindi chi ama davvero può far ciò che vuole, perché quello che lui vuole
altro non è che la proiezione concreta dell'amore di Dio che opera in lui. Alla
radice di tutto c'è l'amore di Dio, che si concretizza in una lucida conoscenza
della verità che Dio ci propone con la sua Parola e in una lucida conoscenza di
ciò che è necessario fare per realizzare questa verità nel comportamento di
ogni giorno.
Nell'esistenza
cristiana non è pensabile una verità che non sia sviluppo della carità. Verità
e carità sono inscindibili. Una verità che si contrapponga alla carità non è
verità cristiana; allo stesso modo una carità che facesse a pugni con la verità
non sarebbe vera carità cristiana. Questo è un criterio di discernimento
decisivo. Quante volte nella storia della Chiesa la verità ha fatto a pugni con
la carità! Il che vuoi dire che non era verità. Allo stesso modo, quando si
pretende di vivere la carità senza tener conto della verità, non si è nella
carità autentica.
È
molto facile capire che una verità che si opponga alla carità non è verità.
Forse è più difficile capire una carità che non sia verità. Facciamo, perciò,
un esempio banale: noi impediamo a un bambino di giocare con un coltello, perché
gli vogliamo bene. Si potrebbe obiettare: ma se gli vogliamo bene, dobbiamo
lasciargli fare tutto ciò che vuole! No, non sarebbe volergli bene, perché
non terrebbe conto della realtà oggettiva. Anche nella vita cristiana non tutto
ciò che sembra ispirato dalla carità è giusto. C'è la verità del Vangelo, a cui bisogna
essere sempre obbedienti. Il rapporto tra carità e verità è molto stretto e
va continuamente verificato.
Si
è voluto a volte, anche recentemente e da uomini autorevoli, giustificare la
prassi della Chiesa di mandare al rogo le presunte streghe nei secoli scorsi. Si
è detto che bisogna stare molto attenti ad accusare
Pensare
che la verità passi attraverso l'eliminazione fisica di una persona umana è
un'aberrazione. Purtroppo molti cristiani lo pensano, il che vuoi dire che
davvero non è loro chiaro il rapporto tra carità e verità. Quando la verità
fredda e astratta prevale sull'autentica carità, non si può più parlare di
verità in senso evangelico.
Purtroppo
anche i santi sono caduti a volte in questi equivoci. Si pensi, per esempio, a
san Giovanni da Capestrano, il predicatore dell'ultima crociata, che aveva
come motto "Indulgenza plenaria per ogni testa di turco"; oppure al
grande sant'Agosti no che per primo chiese l'intervento del pubblico potere in
una vicenda di Chiesa. Per eliminare l'eresia dei Donatisti li fece ammazzare.
C'è
solo un modo per affrontare l'interrogativo posto da queste vicende, e cioè
com'è possibile che nonostante queste aberrazioni quegli uomini abbiano fatto
un'esperienza di Dio così forte da essere poi proclamati santi. Dobbiamo sempre
distinguere fra quella che è la retta intenzione e quella che è la verità
oggettiva. Ci sono stati e ci sono nella Chiesa fasi di oscuramento di alcuni
principi, di cui il singolo non è responsabile. Quella determinata concezione
fa parte di un patrimonio culturale acquisito e quindi è difficilissimo che
uno se ne liberi. Certi errori oggettivi fanno parte di un'epoca, di una
cultura,
di una tradizione. E allora, anche aderendo a quegli errori, ci può essere
un'autentica esperienza di Dio.
Qual
è la conclusione? Che
Il santo è figlio del proprio
tempo. Può purtroppo capitare che essere figli di un tempo e di una cultura sia
più forte dell'essere fedeli alla totalità del Vangelo. Una certa cultura può
oscurarne alcune parti, di cui non si è più coscienti né consapevoli.
Torniamo
all'epoca delle crociate: era impensabile o era rarissimo (san
Tra
l'altro, certi comportamenti ecclesiali sono fondati su una erronea lettura di
passi biblici. Questo ci fa ancor meglio capire come certe persone siano state
nell'impossibilità di capire nel profondo, perché c'era un oscuramento
generale di concetti, addirittura una lettura sbagliata della Bibbia!
Facciamo
un altro esempio a questo proposito: s. Roberto Bellarmino fu uno degli artefici
della condanna di Galilei. Ma
Questo
ragionamento ci fa toccare con mano una delle piaghe più drammatiche della
storia della Chiesa, quella frattura tra verità e carità che invece in Paolo
sono perfettamente coincidenti, per cui davvero soltanto se c'è carità
profonda e autentica la nostra lucidità è piena; e soltanto se c'è
corrispondenza autentica con il pensare di Dio la nostra carità è perfetta.
Frutti di giustizia
v. 10: “perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e
irreprensibili per il giorno di Cristo".
Paolo
continua chiedendo, nella preghiera, la condotta cristiana autentica. Con
questa sottolineatura: che la vita cristiana sia una tensione verso il giorno
del Signore: "integri e irreprensibili per il giorno di Cristo".
Ricordiamo la preghiera che era tipica della Chiesa primitiva: Vieni, Signore
Gesù! La prima comunità cristiana era continuamente rivolta verso il Signore
che viene, in attesa del suo ritorno; quindi l'esistenza cristiana è vista e
presentata come un'esistenza escatologica, cioè un'esistenza proiettata verso
il futuro, nell'attesa e nella speranza.
Inoltre
Paolo dice: "ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per Gesù
Cristo, a gloria e lode di Dio". L'esistenza cristiana deve essere una
pienezza di obbedienza alla volontà del Signore. I "frutti di
giustizia" sono appunto i frutti dell'obbedienza. La giustizia cristiana
è essenzialmente obbedienza al Vangelo, obbedienza alla volontà del Signore. I
frutti della giustizia che devono ricolmare di sé l'esistenza cristiana sono
appunto quella condotta quotidiana che obbedisce momento per momento alla
volontà del Signore. Esistenza cristiana finalizzata esclusivamente alla gloria
e alla lode di Dio.
Il
cristiano vive in attesa del ritorno del Signore praticando l'obbedienza al
Vangelo a gloria e lode di Dio: quello che fa non lo fa per sé, ma lo fa per il
Signore, ricercando esclusivamente la gloria e la lode del Signore, non il
proprio vantaggio.
"Per
mezzo di Cristo Gesù": perché tutto dipende da Cristo, tutto è dono suo,
tutto è frutto della sua grazia. Se nell'esistenza cristiana (e questo è un
altro contenuto della preghiera di Paolo) c'è questa pienezza del frutto di
giustizia, è unicamente dono della sua misericordia e della sua potenza.
Soltanto per mezzo di Cristo si può vivere autenticamente la fede cristiana.
Questa è una sottolineatura importante: l'esistenza cristiana è possibile
soltanto come atto di grazia di Gesù Cristo. Non è possibile in virtù delle
forze dell'uomo, ma soltanto come grazia di Dio in Gesù Cristo.
Tutto
è grazia nella vita cristiana: è Dio che porta a compimento la salvezza e
un'esistenza conforme alla salvezza nell'obbedienza al Vangelo.