Gianni
Zaccherini
RENDETE
PIENA LA MIA GIOIA
Lettura e
commento della LETTERA AI FILIPPESI
EDITRICE
MISSIONARIA ITALIANA 2004
Capitolo 1. Sia che io
viva, sia che io muoia (Fil 1, 1-30) Capitolo 2. Lo stesso
sentire che fu in Cristo Gesù (Fil 2, 1-30) Capitolo 3. Per
guadagnare Cristo (Fil 3, 1-21) Capitolo 4. Nel libro
della vita (Fil 4, 1-23) |
INDICE
DELLE "FINESTRE" Vi porto nel cuore. I cristiani e la «sfera affettiva» Umiltà, carità, unità. Perché le comunità cristiane non vadano in malora. «Lo stesso sentire» e il pluralismo. Un problema di grande attualità nella Chiesa e nel mondo Motivi di gioia. Mentre l'angoscia invade la vita |
Collaboratori
nella diffusione del Vangelo (vv. 19-30)
"Manderò Timoteo"
V. 19: "Ho speranza nel Signore Gesù di potervi presto inviare
Timoteo per essere anch'io confortato nel ricevere vostre notizie".
A
questo punto, dopo aver invitato i cristiani a rallegrarsi con lui per la
consapevolezza comune che ciò che conta davvero è l'autenticità
dell'esistenza di fede davanti al Signore, Paolo passa a parlare dei progetti,
più o meno immediati, che sta facendo durante il suo tempo di prigionia.
Paolo
dice che formula i suoi progetti e le prospettive anche missionarie
all'interno della "speranza nel Signore Gesù". Questo è molto
importante. Anche nella Lettera di Giacomo c'è un accenno in questo senso,
diversamente formulato e in un altro contesto: "E ora a voi, che dite: -
Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e
guadagni-, mentre non sapete cosa sarà domani! Ma che è mai la vostra vita?
Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare. Dovreste dire
invece: Se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello" (Gc
4,13-15). Il riferimento è diverso, però la sostanza è sempre quella: il
cristiano che progetta - e qui Paolo progetta la sua esistenza missionaria,
nella consapevolezza che il Signore lo vuole ancora in vita per assolvere il
suo compito di evangelizzatore -, progetta nel Signore.
Tornando al versetto 19 "Ho
speranza nel Signore Gesù", occorre dire che solo nel Signore un
cristiano può avere speranza e solo nel Signore un cristiano può progettare.
Cosa
pensa Paolo? Pensa di poter presto inviare Timoteo, che è il suo più immediato
collaboratore. Perché lo vuole mandare a Filippi?
Abbiamo
visto al cap. 1 ,26 che Paolo pensava di poter essere presto di nuovo tra i
Filippesi. Qui al v. 24 ripete di avere la convinzione, nel Signore, che presto
andrà anche lui di persona a Filippi. Quindi Paolo pensa di rincontrare
presto i cristiani di Filippi. Ci si potrebbe chiedere: perché Paolo li vuole
rincontrare? Sappiamo già che il motivo per cui Paolo vuole incontrarsi con
quei fratelli di fede a cui ha portato il Vangelo è sempre un motivo di
consolazione e di conforto: per ricavarne entrambi consolazione e conforto nel
Signore. L'incontro fra fratelli, infatti, è sempre occasione di gioia, di
consolazione e di conforto per il cristiano.
Ora
che Paolo non può muoversi di persona, intravede tre fasi in questo itinerario
di avvicinamento: come momento ultimo e definitivo ci sarà la sua andata presso
i Filippesi. Però questo non dipende da lui. Finché è in galera non può
andare "di persona" e allora aspetta che si risolva la sua
situazione. Sa che si risolverà positivamente e allora andrà lui stesso a
Filippi.
Prima
di andarvi di persona, tuttavia, Paolo tenterà di man
dare Timoteo. Non lo manda però
subito, perché pensa: prima voglio vedere come si risolve la mia situazione;
vuole cioè avere una maggiore lucidità sulla sua situazione. Allora per il
momento manda Epafrodito. Ci sono quindi tre momenti, in ordine inverso:
l'andata di Paolo, l'invio di Timoteo e, prima ancora, l'invio di Epafrodito.
Epafrodito lo manda subito, Timoteo lo manderà quando le cose saranno più
chiare e poi alla fine, quando sarà liberato, andrà anche Paolo.
Perché
Paolo non manda subito Timoteo? E perché lo vuole mandare? Dice: "per
essere anch'io confortato nel ricevere vostre notizie". Paolo sa che
dall'incontro personale con i fratelli di Filippi trarrà una grande gioia e
una grande consolazione. Questo è un insegnamento fondamentale per i cristiani:
quando i cristiani si incontrano è questa per loro una fonte di gioia e di
consolazione. Però anche avere notizie gli uni degli altri, il sapere le
condizioni dei fratelli è fonte di gioia. Quando arriva un fratello e reca
notizie, belle o brutte che siano, la comunità se ne rallegra. Ci si sente più
famiglia di Dio.
È
per questo che Paolo manda Timoteo, per essere confortato nel ricevere notizie
da Filippi.
La prova da lui data
Vv. 20-24: "Infatti non ho nessuno di animo uguale al suo e che
sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, perché tutti cercano i
propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. Ma voi conoscete la buona
prova da lui data, poiché ha servito il vangelo con me, come un figlio serve
il padre. Spero quindi di mandarvelo presto, non appena avrò visto chiaro nella
mia situazione. Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò
anch'io di persona".
Ora
Paolo spiega perché manda proprio Timoteo e perché non lo manda subito.
Quando
dice: "tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo",
Paolo non intende tutti gli uomini o tutti i cristiani o tutti quelli che ha
incontrato; non c'è un riferimento assoluto in questo contesto, perché
allora vorrebbe dire che di autentici cristiani esistono soltanto lui e
Timoteo. Paolo questo non può pensarlo e non lo pensa. Fa invece riferimento a
quelli che gli sono attorno in quel momento. Paolo ha attorno a sé dei cristiani,
ma non ha una grande stima di loro. Fra i collaboratori del momento c'è solo
Timoteo di cui si fida fino in fondo.
Si
potrebbe dire che Paolo avesse un caratteraccio; sappiamo che aveva
bisticciato con Barnaba a proposito di Giovanni, detto Marco, proprio perché
delle persone lui si fidava fino a un certo punto ed era esigente a loro
riguardo (At 15,36-40). Però questo era dovuto al suo carattere o a una lucidità
interiore che lo portava a vedere davvero chi si occupava del Signore o chi
invece non se ne occupava fino in fondo? Questo non lo sappiamo e non entreremo
in problematiche che ci sfuggono, però qui Paolo dice una cosa sorprendente:
intorno a lui in quel momento tutti cercano i propri interessi e non quelli di
Gesù Cristo; c'è solo Timoteo che ha questa capacità di occuparsi davvero
fino in fondo degli interessi del Signore e degli interessi degli altri.
A
questo punto dobbiamo porci un interrogativo: che cosa significa occuparsi
delle cose altrui o in alternativa occuparsi dei propri interessi? Che vuoi dire
cercare il proprio interesse e non quello di Gesù Cristo? Qui, tra l'altro,
Paolo parla di persone che sono i cristiani attorno a lui!
Sicuramente
Paolo fa riferimento a quello che diceva già nel capitolo 1,15: attorno a lui
ci sono dei collabòratori che predicano per invidia, per gelosia, per zelo
amaro e non con rettitudine; cercano la gloria per se stessi, vogliono
primeggiare, apparire, fare i primi attori, i leader. Fra le persone che cercano
i propri interessi e non quelli del Signore, Paolo mette quelli che predicano il
Vangelo per trarne vanto e/o vantaggio; quindi parla di cristiani, non di gente
qualsiasi. Parla di gente che predica ed è al servizio del Vangelo.
Da
questo deriva un'indicazione importante: all'interno della comunità cristiana
possono esistere e sono sempre esistiti coloro che lavorano per il Vangelo ma
non primariamente per il Signore, bensì per trarne un vantaggio personale o per
quella che Paolo chiama vanagloria.
Questo
importante discorso introduce un'istanza critica di vigilanza per ciascun
cristiano impegnato all'interno della comunità, quindi anche per noi. Noi che
ci diciamo servi del Vangelo, per cosa lo facciamo? Siamo come Timoteo o siamo
come quelli che Paolo dice che ricercano i propri interessi? Per che cosa i
cristiani annunciano il Vangelo? Con quale scopo, intenzione e tensione?
Ci
si potrebbe porre anche un altro interrogativo: sono solo questi coloro che
cercano i propri interessi o non c'è anche un riferimento più brutale a una
condizione apparentemente cristiana, ma in realtà pagana? Dietro queste
parole non potrebbero esserci anche coloro che vengono figurati in Lc
14,16-20, cioè coloro nei quali le preoccupazioni mondane superano la
preoccupazione per il Regno? Potremmo intravedere, dietro queste parole, i
"mezzadri spirituali", quelli cioè che cercano di stare con un piede
di qua e l'altro di là. Certo, vogliono essere cristiani, ma vogliono anche
essere ben piantati in questo mondo: hanno degli interessi da salvaguardare!
Ci
sono anche questi dietro coloro che "cercano i propri interessi",
secondo l'espressione di Paolo? Molto probabilmente sì, perché nella Chiesa ci
sono sempre stati, fin dai primi tempi, quelli che hanno voluto tenere il piede
in due staffe. Vogliono curare i loro interessi mondani e non vogliono perdere
il Paradiso! Anche oggi quanti sono i cristiani a mezzadria! Vanno a messa,
dicono le preghiere, partecipano ai riti; poi in realtà sono attaccati ai
propri interessi, privilegiano le proprie occupazioni, vedono soprattutto le
necessità materiali e non quelle dello spirito.
Quindi,
partendo da una situazione concreta e specifica - i suoi collaboratori, coloro
che gli stavano attorno e che annunciavano il Vangelo per vanagloria o che
magari avevano interessi specifici da salvaguardare -, il discorso di Paolo si
allarga all'universalità della Chiesa; c'è in esso un insegnamento che non
dobbiamo riferire soltanto ai cristiani che stavano con lui. Se andiamo a
fondo, il "tutti" contenuto nel v. 21
("perché tutti cercano i
propri interessi") vale per molti cristiani, forse per la
maggior parte dei cristiani. Questo "tutti" deve farei paura, perché
davvero ci siamo dentro un po' anche noi.
Occorre
tenere presente che Paolo parlando di quelli che non accettano la predicazione
evangelica li definisce "generazione iniqua e perversa"; mentre qui
chiama i cristiani che non sono fedeli al Vangelo, che pure hanno accolto,
"quelli che cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo".
Se si riflette bene, ci si accorge che la differenza fra le due categorie è
minima. Davvero il grosso interrogativo, che bisogna sempre porsi, è questo:
da che parte sto io? Sto con Cristo o sto con i miei interessi e sono quindi
sostanzialmente un pagano?
Qui
Paolo ci parla di uno solo, Timoteo, che è fedele; sembra che tutti gli altri
stiano dall'altra parte. Il problema che Paolo pone, quindi, è grosso ed è un
invito a una critica e a un'analisi severa della nostra esistenza, che diciamo
"cristiana".
"Mando Epafrodito"
V. 25: “Per il momento ho creduto necessario mandarvi Epafrodito,
questo nostro fratello che è anche mio compagno di lavoro e di
lotta, vostro inviato per sovvenire alle mie necessità".
I
versetti conclusivi del capitolo 2 trattano dell'invio o meglio del ritorno di
Epafrodito a Filippi. Epafrodito era stato mandato dagli stessi Filippesi per
sovvenire alle necessità di Paolo, necessità sia di ordine materiale (sappiamo
che i Filippesi hanno contribuito alla vita concreta di Paolo inviandogli del denaro;
è l'unica chiesa da cui Paolo ha accettato denaro) sia di ordine religioso
(probabilmente infatti i Filippesi hanno mandato Epafrodito anche per aiutare
Paolo nel suo ministero di evangelizzazione). Paolo ora lo rimanda a Filippi.
Dall'insieme delle parole che Paolo scrive rinviando Epafrodito a Filippi, la
quasi totalità dei commentatori ipotizza che Paolo presagisca una critica da
parte dei Filippesi verso Epafrodito. È stato mandato per aiutare Paolo ed
ecco che torna indietro, lasciando Paolo in prigione. Si può supporre una certa
irritazione da parte dei Filippesi nei confronti di Epafrodito che torna. Paolo
allora ne prende le difese e spiega i motivi per cui lo rimanda, che non sono
frutto della paura o di ragionamenti umani, ma di serio discernimento.
Epafrodito, sembra dire Paolo, non è un uomo da disprezzarsi, perché è stato
"compagno di lavoro e di lotta". Quindi "accoglietelo nel
Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui".
Questo
Epafrodito, di cui conosciamo la vicenda solo attraverso le parole di Paolo,
si è ammalato, ha patito e "ha rasentato la morte per la causa di
Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio presso di me".
Si è comportato bene, dunque; ha svolto il suo servizio con fedeltà, con
coraggio fino al punto di rischiare la vita. Si è ammalato e per servirmi, come
voi avete voluto che facesse, dice Paolo ai Filippesi, ha messo in gioco tutto
se stesso per la causa del Signore Gesù. Quindi è tutt'altro che un vigliacco
e un pauroso, ma è un uomo di grande generosità e di grande coerenza.
I
motivi del rinvio di Epafrodito sono, dunque, altri. Dicevamo prima che questi
versetti finali del cap. 2 affrontano il problema del desiderio di Paolo di
rivedere i cristiani di Filippi, desiderio che -lui lo sente nel Signore - si
avvererà. Nel frattempo coglie l'occasione dalla vicenda di Epafrodito -la
malattia che lo ha portato a un passo dalla morte - per mandare lui a stabilire
un primo "nuovo contatto" con i Filippesi. Questa opportunità, del
tutto estranea ai precedenti piani di Paolo, gli consente in qualche modo di
tornare immediatamente fra loro.
I sentimenti umani
V. 26: “lo mando perché aveva grande desiderio di rivedere voi
tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della
sua malattia. E stato grave, infatti, e vicino alla morte".
I
motivi concreti e immediati che hanno spinto Paolo a rinviare Epafrodito sono
due: uno è il desiderio di Epafrodito di rivedere i fratelli di Filippi.
Alcuni commentatori sono un po' sorpresi di questo fatto: in fondo, la
nostalgia di rivedere i fratelli non è poi un grande motivo cristiano. Il
cristiano sa che il suo impegno è l'obbedienza al Signore, qualunque sia la
condizione in cui viene a trovarsi, quindi questa nostalgia di casa sarebbe un
motivo un po' troppo terreno.
L'altro
motivo è che Epafrodito, che si era ammalato gravemente ed era stato prossimo
a morire, voleva rassicurare i fratelli di Filippi facendosi vedere di
persona, perché non si preoccupassero oltre e non soffrissero inutilmente. A
quei tempi le comunicazioni non erano facili né rapide: niente di meglio che
tornare di persona per far vedere le sue reali condizioni.
A
prima vista sembrano due argomenti molto umani, ma ci fanno capire una cosa
molto concreta e anche molto bella su quello che era il modo di sentire e di
vivere dei primi cristiani.
I
primi cristiani non erano eroi, persone che affrontano le difficoltà per il
gusto di affrontarle, che muoiono sprezzantemente, oppure che, una volta
partiti, ignorano i parenti, i fratelli, gli amici. I cristiani erano uomini
veri che amano, soffrono, si vogliono bene, hanno nostalgia... E se tutto
questo rimane all'interno della radicale obbedienza al Signore, allora il
Signore tiene conto anche'di quelle che sono le autentiche e profonde relazioni
umane.
I
cristiani hanno sentimenti, affetti, desideri che, se posti all'interno
dell'obbedienza radicale al Vangelo, non impoveriscono, anzi arricchiscono la
vita cristiana. Quindi, questo testo è molto significativo e ci dice che
all'interno dell'obbedienza cristiana autentica c'è tutto lo spazio per quelle
che sono le relazioni umane, gli affetti, le simpatie, le nostalgie, le sofferenze,
le gioie... I cristiani non sono dei robot, ma esseri umani che trasfigurano
tutta la loro tensione umana e personale all'interno dell'obbedienza profonda
e radicale nel Signore. Quando c'è questa obbedienza c'è spazio per tutto il
resto.
Paolo
vuole quindi rassicurare i fratelli di Filippi che Epafrodito è tornato a
casa per semplici motivi umani, sì, ma ha vissuto fino in fondo la sua
obbedienza al Signore: è stato Paolo stesso a rimandarlo per una serie di
validi motivi e ne approfitta per primo per far avere sue notizie. Tutto ciò
rientra nel disegno di Paolo, che è all'interno del disegno del Signore.
Due livelli di misericordia
Vv. 27-28: "È stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma
Dio gli ha usato misericordia, e non a lui solo ma anche
a me, perché non avessi dolore su dolore. L'ho mandato quindi con tanta
premura perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più
preoccupato".
Parlando della malattia di
Epafrodito, Paolo fa un'affermazione molto importante e a prima vista
sorprendente: egli è stato talmente grave che stava per morire, ma Dio gli ha
usato misericordia. Qui chiaramente Paolo vuoi dire che Dio non ha permesso
che morisse, lo ha conservato in vita. Ha usato misericordia non solo a lui,
dice Paolo, ma anche a me, perché l'aver assistito alla morte di Epafrodito mi
avrebbe procurato un dolore che si sarebbe andato ad aggiungere a sofferenze già
tanto grandi.
Indubbiamente
si pongono due problemi all'interno di questo versetto: da una parte il problema
della misericordia di Dio che si attua con la guarigione di Epafrodito;
dall'altra il dolore di Paolo per l'eventuale morte del suo amico. Sono due
punti su cui vale la pena di riflettere un po'.
A
questo punto dobbiamo allargare il ragionamento per collocarlo non solo nel
contesto della Lettera ai Filippesi, ma in quello più ampio della rivelazione
del Nuovo Testamento.
La
misericordia di Dio si attua a due livelli, rimanendo sempre la stessa. Si attua
al livello della preservazione dalla morte, quando qualcuno rischia di morire.
Dio può usargli misericordia e non fari o giungere alla morte, come dice
Paolo in questo contesto; o può addirittura richiamare in vita un morto (Lazzaro,
per esempio, o il giovi netto figlio della vedova di Nain). Questo primo livello
della misericordia è soprattutto simbolico, non è il più profondo, perché
vuole sottolineare ed evidenziare che la misericordia di Dio è salvifica.
Però
la morte da cui Dio salva l'uomo non è semplicemente quella fisica, bensì
quella totale; quindi la vera vita e la vera salvezza sono quelle escatologiche.
Perciò il secondo livello della misericordia di Dio è l'introduzione nella
vita nuova, nella vita eterna. Dio usa la sua misericordia nella forma suprema
quando introduce l'uomo nella vita eterna.
Dio pone dunque segni di
risurrezione dalla morte fisica o di preservazione della vita terrena per
orientare a questa riflessione sul livello più profondo della sua
misericordia.
Potremmo
chiederci: quand'è che Dio usa il primo livello e quando il secondo? Perché in
alcuni casi preserva dalla morte e in altri no? Perché alcuni li richiama in
vita ed altri li lascia nel disfacimento della morte?
Ricordiamo
la frase che si trova nella Lettera di Giacomo al cap. 5,13-15: "Chi tra
voi è nel dolore preghi, chi è nella gioia salmeggi. Chi è malato, chiami a sé
i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel
nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore
lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati".
Riflettendo su questi versetti si possono sottolineare i due livelli della
misericordia di Dio: Egli potrà usare misericordia conservandolo in vita, ma
soprattutto gli userà misericordia introducendolo nella vita eterna dei figli
di Dio. L'espressione "il Signore lo rialzerà" indica certamente la
guarigione fisica, ma è soprattutto il rialzarsi nella potenza della resurrezione
per la vita che più non muore.
Potremmo
chiederci: quando c'è il primo livello e quando il secondo? Tutto questo
appartiene al mistero di Dio che conosce il cuore dell'uomo sapendo di cosa
esso ha bisogno. È un ragionamento molto duro ma anche molto bello e profondo,
questo di Paolo, perché a volte l'uomo ha bisogno di vedere con i suoi occhi la
preservazione dalla morte, a volte invece ha bisogno di vedere più in profondità,
di vedere nella morte la potenza della resurrezione di Cristo.
Per
noi che leggiamo queste parole e assistiamo alla misericordia del Signore che
si esercita nel preservare dalla morte e nel prendere con sé i morti al di là
della morte, e ci chiediamo che significato ha tutto questo, per noi, dunque,
quello che viene dalle mani di Dio, vita o morte, è bene ed è gioia. Il nostro
bene, la nostra gioia è ciò che viene dalle mani di Dio, sia che ci venga la
vita, sia che ci venga la morte, perché sia la vita che la morte sono
finalizzate alla vita eterna dei figli di Dio, al momento definitivo e finale
del nostro incontro con Lui nella potenza della resurrezione del Cristo.
È
un mistero importante su cui vale la pena portare la nostra attenzione, come è
anche importante, sempre in questa linea, capire il senso della parola di Paolo:
"perché non avessi dolore su dolore". La morte di un amico, di un
fratello, di una persona cara, di un figlio, di un padre è sempre,
inevitabilmente, fonte di dolore.
L'assenza
di dolore di fronte alla morte non è cristiana. Il cristiano sa che la morte
è un atto di violenza, un sopruso, una
menzogna.
Sa che è l'annientamento dell'opera di Dio. Ma al di là del dolore il
cristiano, avendo la speranza nella potenza del Cristo risorto, vive la gioia di
questi eventi perché li riceve dalle mani di Dio per la salvezza sua e di
tutti.
Il
dolore di Paolo quindi non è un segno di debolezza, di paura o di poca fede, ma
è il segno della sua profonda sensibilità di fronte alla morte, pur nella
certezza della fede e nella speranza della vita eterna dei figli di Dio.
La morte sorella
Vv. 29-30: "Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e
abbiate grande stima verso persone come lui; perché ha rasentato la morte
per la causa di Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio
presso di me".
Abbiamo
già commentato queste parole. Ci rimane una notazione da fare, molto
interessante. Il fatto concreto di Epafrodito che ha "rasentato la morte
per la causa di Cristo" acquista valore di simbolo: chi si pone al servizio
di Cristo rischia continuamente la vita, è sempre esposto alla possibilità
della morte. La morte è la compagna del cristiano che cammina sulla via del
ritorno alla casa del Padre, una compagna severa e dolce insieme: "nostra
sorella morte corporale".